Pesci in carrozza

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La terra dei cozzicòmini o del magico realismo di mia madre di Raffaele Messinese, Il Seme Bianco

«Oggi mangiamo pesci in carrozza!», diceva mia madre, mentre rimestava i grappoli di conchiglie bianche impastate di sterco nerastro e residui di farina. Mia madre spargeva la farina in un cesto di vimini dove gli animaletti venivano messi a spurgare. Poi richiudeva il contenitore con un piatto da portata di vetro giallo trasparente. Io, le ginocchia per terra, restavo a lungo a fissare attraverso il coperchio di cristallo quella specie di strana urna di paglia in cui i destini di tanti animaletti si incrociavano e si sovrapponevano. Nelle mie fantasie di bambino le lumache (capii solo molti anni dopo che avrei dovuto chiamarle “chiocciole”) avevano sempre rappresentato un singolare ibrido tra carrozza e cavallo. Ogni volta che mia madre parlava dei pesci in carrozza, non facevo che figurarmi cavalli che lasciavano dietro di sé una scia filamentosa e trasparente e che al posto delle orecchie avevano antenne retrattili. Per me le lumache erano state soprattutto cavalli e cocchi, draghi e antri, vermi e tane. E chissà perché mi correva sempre per la mente l’immagine sfocata del nonno che guidava un carro trainato da lumaconi al posto dei normali cavalli da traino. Mah… Mio padre e mia madre erano grandi divoratori di quei molli prodigi, che il loro dialetto magicamente chiamava cozzicòmini. Mio nonno aveva un altro modo ancora più misterioso di chiamarli, qualcosa come ciamarruchi, ma forse si trattava di un’altra varietà, non so se terrestre o marina. Altre volte parlava di “monachelle”, quelle marroni col candido opercolo, altre volte ancora alludeva a una ineffabile varietà detta “cervoni”, che immaginavo enormi perché mentre ne parlava ingigantiva le palme delle mani a mo’ di cocomero. Mi sono sempre chiesto che cosa potessero avere a che fare i suoi occhi “cervoni” (come li descriveva l’antica carta d’identità) con una varietà di gasteropodi terrestri, ricercati come prelibatezze, arrostiti sulla brace di sterpi sui campi dopo averli scovati sotto pesanti pietroni.

La vista di quel piatto con le inerti carcasse nel lavello, immobili, senza più stomaco né cervello, non mi fece prendere sonno quella sera. Sballottato da un sogno inquieto all’altro, mi sembrava di bagnare il letto mentre vi strisciavo sopra in tutte le direzioni. Svegliatomi dall’incubo, mi ero precipitato in cucina. Avevo acceso la luce e, inebetito, avevo fissato le processioni di pallottole intrise di farina che con lente oscillazioni si muovevano tra piatti e bicchieri nel lavandino. Lo avevano fatto, allora. Erano… evase. Con un’occhiata complice e preoccupata le avevo lasciate andare. Ero tornato a letto per restare sveglio il più a lungo e lasciare spazio ai pensieri allo scopo di sottrarmi ad altri sogni ossessivi. Le invasioni dei molli animaletti erano proseguite per mesi, forse facilitate dalla sospetta distrazione di mia madre. Al mattino lei strillava e recriminava, mentre con secchio e detersivo strigliava mobili e sedie con la spazzola per mondarle dalla truce stria di moccio che le svergognate avevano lasciato nel loro misterioso zigzagare.

Un giorno, di ritorno da un esame di glottologia, trovai sul frigo qualcosa che biancheggiava attraverso la trasparenza di un bicchiere capovolto. Si trattava di un esemplare di gasteropode di una varietà particolare, rotondo e col dorso marrone a sfumature grigioverdi. Un cervone? Avevo ascoltato senza discutere tutte le spiegazioni di mia madre circa la nuova adozione. Un solo pesce in carrozza, chiuso in un bicchiere, non avrebbe mai potuto rappresentare un pericolo. Anzi, aveva aggiunto lei, ne avrebbe richiamati eventualmente altri scampati alle sue minuziose ricerche. Si sa, così funziona tra gli animali. E lo attestano decine di antiche sentenze e proverbi. Argot, così avevo battezzato la bestiola, cresceva continuamente. Nutrita con buone dosi di farina, la chiocciola, pur nel suo angusto universo di vetro, pareva sviluppare, a ogni mia osservazione, nuove variazioni nell’estensione e nella tonalità delle striature brune del guscio.

Argot continuava a crescere con inspiegabile rapidità. Come se non bastasse, a mia madre era saltato in mente di ficcare nel recipiente un rametto di menta che aveva strappato dal grosso vaso posto sul balcone della mia stanza. Sembrò che si dovesse andare avanti così all’infinito, almeno fino a quella mattina in cui mia madre si svegliò di soprassalto con la fastidiosa sensazione di qualcosa di pungente e viscido sotto il fianco. C’erano schegge disseminate nella parte centrale del letto e tracce di liquido gelatinoso sul ventre. «Argot!», gridò con terrore. Corsi immediatamente in cucina. La tana di Argot era vuota. Fu un grande dolore per mia madre dover disfarsi del materasso e delle lenzuola matrimoniali. Erano le sacre leggi di mia madre. Per quanto arretrate o grottesche potessero sembrare, mai nessuno avrebbe potuto scalfire l’inossidabile fede che lei vi riponeva. Un codice di credenze che i suoi avi avevano applicato indistintamente a persone, animali, cose. I pesci in carrozza avevano infranto ogni pia regola di decenza.

Per anni non ci fu il minimo accenno alle lumache. Quando qualche parente accennava a chiedere a mio padre come mai non raccogliesse più le squisite… egli deviava abilmente il discorso su altre faccende. Erano lontani ormai i tempi leggendari della buonanima di “Sciabola Arrugginita”. Io riguardavo spesso il grigio ritratto sulla vecchia carta d’identità. Per me gli occhi del mio avo paterno non avevano mai smesso di avere quel misterioso color ‘cervone’. Ma questa, forse, è un’altra storia. Di carrozze e cavalli veri del buon tempo antico.

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