Riscrivere parola per parola, oltre che leggere i pensieri di altri scrittori è un esercizio che fa bene all’onestà intellettuale di cui spesso ci si ammanta senza capirne il vero significato. Un esercizio che consiglio non solo per questo, ma soprattutto per avere la possibilità di vivere e rivivere le parole degli autori che tanto amiamo.
Da Il senso di una fine di Julian Barnes tradotto da Susanna Basso.
Si arriva alla fine della vita, no, non della vita in sé, ma di qualcos’altro: alla fine di ogni probabilità che qualcosa in quella vita cambi. Ci viene concesso un lungo momento di pausa, quanto basta a rivolgerci la domanda: che altro ho sbagliato? Ho pensato a un manipolo di ragazzi a Trafalgar Square. A una ragazza che, per una volta, ballava. Ho pensato a ciò che non potevo sapere né capire, adesso, a tutto ciò che non si potrà mai sapere né capire. Ho pensato alla definizione di storia proposta da Adrian. A suo figlio che premeva la faccia in uno scaffale di carta igienica traforata pur di evitarmi. A una donna che frigge delle uova con svagatezza e malgarbo, senza preoccuparsi quando le si rompe un tuorlo nella padella; poi alla stessa donna, più tardi, e al suo saluto enigmatico, al gesto orizzontale della mano sotto un glicine inondato di sole. E ho pensato alla cresta di un’onda illuminata dalla luna, acqua in corsa che si allontana controcorrente, inseguita da una banda di giovani urlanti le cui torce elettriche incrociano fasci di luce nel buio. C’è l’accumulo. C’è la responsabilità. E al di là di questo, c’è il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto